lunedì 19 marzo 2012

LA VITA DIETRO IL CANCELLETTO

C’è stato un tempo in cui Twitter non se lo filava nessuno, c’è stato persino un tempo senza Twitter. Cioè: il tempo si spendeva in altra valuta. Molti, un’infinità, vivevano su Facebook, altri si isolavano vivendo e basta. C’è persino qualcuno che leggeva i libri. Quelli di carta, senza batterie, retroilluminazione riposante, fisiologicamente tattili. Quelli vergati a mano da Franzen, per esempio, che contro il mezzo ha dettato al mondo una serie di ragioni più o meno condivisibili, tirate via per lo più dall’approssimazione titolistica in “fa male alla letteratura”. In pochi giorni l’hashtag #senzatwitter ha rastrellato migliaia di pizzini di vita non vissuta, ma tutta in positivo. @simonespetia ha scritto, per esempio, che #senzatwitter avrei molte meno informazioni di quelle che ho. Sarei un cittadino più povero, con meno strumenti di conoscenza”. Che rappresenta una ragionevole e stringata arringa difensiva nel processo che s’è scatenato pochi giorni fa, quando Michele Serra (uno che per Severgnini “sarebbe un twitterista nato”) ha pubblicato su Repubblica un’Amaca feroce contro il microblogging, con argomenti tipo questo: "Zero possibilità che dal cozzo dei 'mi piace' e 'non mi piace' scaturisca una variante dialettica, qualcosa che sposta il discorso in avanti, schiodandolo dal puerile scontro tra slogan eccitati e frasette monche".
Twitter è andato in autoprotezione immediata. E Serra è stato costretto a tornarci su con un altro editoriale lasciando intendere con questo che, evidentemente, anche le poche battute dell’Amaca non lasciavano abbastanza campo ad un ragionamento ben articolato. Sottolineando, magari involontariamente, che è proprio la risicatezza del mezzo, qualunque esso sia, la questione in oggetto. Luca Sofri gli ha risposto così e tralasciamo ulteriori codazzi, perché la bella discussione è andata sfumando.
Il punto però resta chiuso in 140 caratteri, e in un cancelletto che rompe la grammatica: #senzatwitter. Proprio ora, in questo momento, il multitasking patologico mi impone l’apertura di due browser e un’altra manciata di programmi. Le agenzie sfornano news, e un’occhio non puoi non buttarcelo. E poi c’è Twitter, che è un fiume in piena di curiosità, battute, notizie, spunti. Solo che Twitter ha spezzettato ancor di più questo pezzo, imponendomi – le ho contate – 7 pause. Non mi serviva granché sapere che “oggi è il giorno buono per abbuffarsi di zeppole fritte”, e quelli sono secondi di concentrazione che non recupererò più. Ma si tratta sempre di scelte, di priorità, di autogestione. La sera, sul comodino, a me resta un libro. Che provo a leggere, spegnendo il cellulare. Un faticaccia, ma mi piace pensare che un mondo #senzatwitter sarebbe un mondo #conmenooccasioni. E quindi cerco di difendere il mezzo, anche non usandolo.

giovedì 8 marzo 2012

NESSUNO. VI DEVE. NIENTE.

Lo so cosa c’è sotto sotto. C’è la vecchia storia del tifo sacrificale. Alcuni la chiamano mentalità ultras. Io la chiamo malattia mentale, e lo scrivo mettendo a verbale nome e cognome. A chi lo richiedeanche l’indirizzo. Lo sento dire in giro da anni, lo leggo ovunque: ah, quelli che seguivano il Napoli a Sora, a Lanciano… Quelli che andavano in missione, che si sobbarcavano ore e ore di macchina o di treno per andarsi a infreddolire su campi pulciosi. I volontari del Calcio Napoli: non gente che va a vedersi la partita perché tifa per il Napoli e gode nel vedersi il Napoli. Gente che ci va con lo spirito Unitalsi: ché seguire Grava in serie C o accompagnare i malati a Lourdes è la stessa roba. E abbinare il concetto di scampagnata a quello di trasferta, non si sa perché, è sacrilego. Poi, quando il fenomeno di massa diventa di massa davvero, allora rivendicano la primogenitura della passione. Quelli che ora che il Napoli è in Champions rinfacciano. Che non possono permettere che una civile fila ai botteghini (nel 2012 a questo stiamo, alla fila ai botteghini…) decida la prelazione per un posto a Londra. Loro hanno una prelazione divina: perché sono andati a Gela, a Bucarest. Ma chi ve l’ha chiesto? Se era così faticoso perché ci siete andati? Scegliere – e ribadisco: sce-glie-re – di dedicare la vita al Napoli è un sacrosanto diritto, che attiene alla personalissima lista delle priorità. Andrebbe vissuta con gioia, non con livore. E’ una passione, come vivaddio ce ne sono tante altre. E per tutte le passioni si fanno sacrifici: però quando fai la somma, alla fine i sacrifici non pesano, non li senti più. Perché ti sei divertito, hai amato quel che facevi, hai pure sofferto. Ma in quel senso buono che eleva le cose fatte col cuore a bellezza della società umana.
Voi che blaterate di orgoglio ultrà, convinti che il tifo non abbia regole, che non sia un abbraccio costante, che calpestate gli altri perché sono “tifosi occasionali”. Che vi sentite più tifosi degli altri, più degni degli altri di stare al fianco del Napoli. “Poveretti” che tifano anche per noi schifosi borghesi coi soldi in tasca (ma chi? ma quando?) per meritarsi una medaglia al valor incivile. Tutti voi, che per voi stessi – e non per il Napoli – vi appollaiate sui botteghini sputando sui diritti delle persone oneste. Sappiate che noi un posto a Londra ve lo cediamo volentieri. Perché noi con il Napoli soffriamo e ci divertiamo, perché ne siamo innamorati. Non ne siamo vittime, e nemmeno vogliamo essere carnefici. Voi non avete capito niente. E meritate di restare da soli, chiusi in una gabbia, in uno stadio senza regole, a sfogarvi per la vita di merda che avete scelto di condurre. Nessuno vi deve niente. Nessuno.

martedì 6 marzo 2012

SE BOSSI PARLASSE COSI' NEGLI USA

Umberto Bossi, ex ministro della Repubblica italiana, ad un certo punto, davanti ad un tappeto di microfoni dice questa frase: "Monti rischia la vita, il nord lo farà fuori”. Dice che “prima o poi qualcuno si deciderà ad impiccare in pubblica piazza”.
La giornalista che lo intervista è prontissima: “Ma quindi l’alleanza col Pdl non ci sarà mai più?”.

Fermi. Mettete pausa al video (Sì, c’è pure il video).

Un ex ministro, leader di una importante forza politica, ha appena detto che il premier rischia la vita perché prima o poi qualcuno del nord si scoccia e lo ammazza.
Tu sei una giornalista, tutti quelli attorno a te sono giornalisti. A nessuno, dico ma proprio a nessuno, viene in mente di bloccare tutto e attaccare dritto per dritto? Ma come? Ma cosa dice? C’è qualcosa che sa? Sono parole pesantissime… ecc…

Facciamo finta per un attimo che la stessa cosa avvenga negli Stati Uniti. I cronisti americani intervistano chessò… Rumsfeld. E quello se ne esce che Obama farà una brutta fine. Cosa accadrebbe? Intervista sospesa. Cordone di uomini dell’intelligence che si chiude attorno a Rumsfeld, via tutti i giornalisti. Si alzano in volo i caccia e l’Air Force One. L’intervistato viene trasferito in località segreta, magari al di fuori dei confini americani. Gli vengono sospesi i diritti umani, stanza buia, interrogatori, un paio di torturine miste. Parla! Che sai? Chi è sto nord che vuole far fuori Obama? E’ un canadese? E’ il Canada che ci vuole attaccare? In pubblica piazza? Quale piazza? E’ Times Square? Eh? Chiudete Times Square! NOW! E tu avanti parla!
Immediatamente verrebbero rintracciati i trisavoli arabo-calabresi di Rumsfeld, Agazio e Rosalba Rumsfeldo. E verrebbe dichiarata guerra preventiva ad uno stato mediorientale a caso.
Nel frattempo tutti i giornalisti presenti all’intervista verrebbero resettati con uno speciale trattamento della Cia e rispediti a casa convinti di aver passato la giornata allo zoo comunale.

E da noi?
Da noi: “Ma quindi l’alleanza col Pdl non ci sarà mai più?”, “Ha mangiato? Ha digerito? Ha fatto il ruttino?”.
Qui si innescherebbe tutto un discorso sulla professionalità e sulla deontologia dei giornalisti italiani. Ma poi dovremmo porci delle domande. Domande vere. E proprio non è cosa nostra…

venerdì 2 marzo 2012

LEHNERIADE (puntata 15, dei no-sapiens)

Che uno poi si dimentica che lì fuori, anzi lì dentro, in Parlamento, c'è un cotale autore di minchiate. Consiglio di leggere quanto segue al calduccio, con una luce soffusa, e un buon brandy che poi vi aiuti a riflettere, con calma, sull'aborto post-post-post-natale. Ecco:

"Darwin non previde che dagli scimpanze' e, in ispecie, dai bonobo potesse scaturire anche l'homo no-sapiens, cioe' no-tav. Io stesso, me meschino, non riesco ad individuare l'anello mancante, per spiegare l'esistenza della specie tanto violenta, quanto ottusa, della Val di Susa. Per capire l'origine di siffatta teratologia di nuovo tipo, tra la belva, il Gabibbo e la iena, bisogna rivolgersi ai celesti creazionisti, agli ex brigatisti rossi o, magari, ai responsabili dei programmi di Italia 1 e di canale 5".
Giancarlo Lehner, deputato di Popolo e territorio

giovedì 1 marzo 2012

COSI' LA CHIESA HA TAGLIATO I "MIEI" ALBERI

C'era una volta una terra sfuggita per caso alla grande cementificazione di Napoli negli anni 50. Un pezzettino piccolo piccolo, un posto al sole scappato dall'ombra dei palazzoni del Rione Alto. La terra di mio nonno, coltivata da mio nonno. Dove mio nonno faceva il vino, e lo conservava in enormi botti di legno, in una specie di cantina buia che a me aveva sempre fatto troppa paura per scenderci.  Poi mio nonno decise che andandosene avrebbe fatto cosa buona donando quei pochi lotti di verde alla adiacente Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli. C'erano un minuscolo agrumeto, un noce secolare, persino un albero di fico. L'ingresso nella terra era scandito da un breve filare di abeti. 
Ora guardate la foto. Ecco Monsignor Raffaele Ponte, l'illuminato prelato che gestisce i beni della Parrocchia, in cosa ha trasformato la "mia" terra: una stazione di servizio, un parcheggio, e un semi-deserto con tanto di abuso edilizio in atto (credo, devo controllare che non abbia i permessi) .
I ricordi, il verde, la storia, persino l'intelligenza sono chiaramente "beni non commerciali", e la Chiesa nemmeno per questo pagherà.